LA VOCE DEI COLPEVOLI

Camminare per corridoi polverosi perdendosi a leggere migliaia di cartelle cliniche stipate in archivi ammuffiti. Guardare in silenzio seguendo con l’occhio quella lama di luce che passa tra le sbarre arrugginite e dopo essersi arrampicata su rovi ad robusti arriva a trovare la libertà in un angolo di cielo. Toccare un letto gelido. Sedersi sulla la terra umida. Passare. Ascoltare.

Visitare un manicomio, anche se abbandonato comporta l’immergersi in un caos di emozioni che trascina alla deriva. Sembra di leggere una sorta di parallelismo tra le follia di chi visse in questi luoghi e tra il senso di vertigine dell’esploratore che prova a raccontarli. Già perché sia i matti sia i fotografi si sono perduti,  i matti nel labirinto oscuro della propria mente i fotografi nel dedalo di corridoi e stanze mezze vuote e acciaccate dal tempo.

Picchiare la testa contro un muro imbottito, strillare fino a masticarsi la lunga, tremare di paura e di freddo. Spiare tra due sbarre umide, nascondersi. A volte arrivano anche le botte, quando va bene invece non arriva nemmeno il cibo, ma è meglio uno stomaco vuoto a delle ossa rotte.

Sul senso del perdersi, su questa deriva è basata la nuova mostra di Manicomio Fotografico. Questa volta i membri del team hanno voluto tralasciare la componente documentativa della fotografia di urbex, per concentrarsi maggiormente sul lato emozionale.

La storia dei manicomi, delle nefandezze o delle importanti scoperte che vi furono fatte è pressoché nota. La rivoluzione della legge Basaglia la abbiamo avuta sotto i nostri occhi. Non serve aggiungere altre conoscenze storiche in materia, molto è già stato detto, scritto e fotografato.

La vicenda dai manicomi ancorché fenomeno da considerarsi noto, data la mole di documentazione reperibile, è da considerarsi anche fenomeno che meriterebbe un approfondimento diverso, non dal punto di vista storico/oggettivo ma dal punto di vista emozionale.

Prima fù un senso di spaesamento, poi preoccupazione,  rabbia,  furia cieca. Rassegnazione in ultimo. Fummo chiusi in gabbia come i leoni allo zoo, fummo privati dell’umano perché abbiamo smarrito la strada di casa. La donna isterica, l’avversario politico, il fratello scomodo, lo storpio ed il diverso, tutti reclutati per ingrassare le corti dei miracoli creati in spazi protetti. Ma la protezione lasciò spazio all’occultamento, e con l’occultamento fu l’incuria della cura, l’abbandono, per non aprire il capitolo della carne che diventa materia per esperimenti…

Può una fotografia rievocare un’emozione vissuta da altri? difficile. Una fotografia più impregnassi dell’emozione che prova chi realizza l’immagine, e chi realizza l’immagine scatta in preda al sentimento succitato dal momento-luogo nel quale nasce lo scatto. Il percorso è tortuoso, è un filo estremamente sottile e fragile, ma una flebile traccia rimane. Le fotografie di questa mostra sono tracce che cercano di mantenere in vita barlumi di emozioni che non devono andare perduti, perché come la ragione è stata lenta ed incapace nel dimostrare la follia dei manicomi, forse il bistrattato e poco considerato sentimento può essere fondamentale per comprendere l’errore del passato per migliorare l’agire del futuro.

Solitudine, freddo, disperazione, buio. Questo il vocabolario del paziente. Qui si è soprattutto soli, ognuno perduto nel proprio labirinto. Non si parla con nessuno, perché nessuno ascolta, il silenzio pesa, il silenzio rende soli e la solitudine uccide.

Manicomio Fotografico ci chiede di affrontare un viaggio.  Attraverso le immagini di questa mostra si deve risalire al fotografo, alla sua anima che passeggiano per corridoi solitari ed inzaccherati è entrata in contatto con emozioni sopite, queste emozioni sono l’anello di una catena lunghissima ed hanno tremato,  questo tremolio si è trasmesso anello per anello fino alla mano del fotografo che in fase di scatto ha risentito di questo tremolio. Il suo occhio è diventato insicuro. ma la fotografia è nata ugualmente è si è inglobata la catena ed il corridoio, il fotografo ed i suoi tremoli.

Resta una flebile traccia dell’emozione. non serve altro.

Ascoltare. Passare. Sedersi sulla terra umida. Toccare un letto gelido. Guardare in silenzio seguendo con l’occhio quella lama di luce che passa tra le sbarre arrugginite e dopo essersi arrampicata su rovi ad robusti arriva a trovare la libertà in un angolo di cielo. Camminare per corridoi polverosi perdendosi a leggere migliaia di cartelle cliniche stipate in archivi ammuffiti.